Di colpo mi sveglio. Tornando dall'Ungheria

Di colpo mi sveglio. Fatico a recuperare i contorni. “My friend...”. Un sorriso gentile mi porge interrogativo il suo cellulare. Lo osservo. Ha la barba fatta di fresco. Non riusciamo a intenderci con il nostro inglese. Le labbra stanche lasciano cadere un saluto. Riprendono la lingua consueta.

D'improvviso riesco a vedere la scena nella sua totalità. I cellulari passano di mano, veloci. Chiamano, salutano, sorridono nello schermo. Mi stringo nello zaino, cercando di immaginare. La realtà è silenziosa alle volte, leggera, ti passa vicino senza riuscire a scrollarti. Altre invece ti prende alle spalle e ti strattona forte.

Uno ritorna nel gruppo con aria trionfante dal supermercato. Ha preso una mela e un profumo. Lo apre e comincia a spruzzarlo a sorpresa a tutti gli altri. Ritrovano il gioco, per un momento.

Li vedo ora, che la realtà brucia di meno i palmi delle mani. Ora che la fronte corrucciata può accompagnare un sorriso.

Li ho avuti compagni di viaggio, già da tempo. Ho preso il primo treno del pomeriggio dalla stazione di Budapest. I controllori mi hanno riservato uno sguardo cortese. Non c'è motivo di dubitare di me: sono bianco, biondo, dai tratti europei. I vagoni scorrevano veloci sulla pianura ungherese e una ronda mista, magiaro-austriaca, pattugliava i corridoi avanti e indietro. Guardavano in faccia cercando il colore più scuro. Kelenföld: salgono due ragazzi. Farfugliano, si spostano rapidi, da un lato a un altro. Il controllore gli dice qualcosa con voce perentoria. Spariscono. Uno di loro rientra, quatto quatto, nel vagone. Cerca qualcosa con lo sguardo. Scosta un po' le pesanti valigie e si stende sotto il loro peso. Non posso fare a meno di fissarlo. Mi sorride di un sorriso nervoso, pieno di paura. Discosto lo sguardo.

Una coppia di olandesi allarmati si fa vicina, per controllare l'integrità dei proprio bagagli. Non capiscono. Da sotto gli zaini le mani spuntano un poco.

La stazione centrale di Vienna brilla nel suo vestito nuovo. Esco a fatica nell'afa. Di fronte alle scale degli agenti passano al vaglio la folla. Sto preparando il documento ma l'energumeno guarda oltre. Non sono un problema. Sono bianco, biondo, dai tratti europei. Da un lato alcuni poliziotti hanno fermato dei ragazzi. Il brutto suono degli ordini urlati in tedesco sovrasta lo sferragliare dei treni.

Frastornato mi siedo. Una bella ragazza a piedi scalzi mi squadra, da sopra una rivista. Riprendo fiato. Piano piano gli occhi si chiudono. È solo un attimo. "My friend...".

La luce del giorno si è spenta. Dei fari fastidiosi mi hanno svegliato. Tarvisio Boscoverde. Ho passato il confine. Reimparo le mie parole, osservando il cambio della guardia. Sono partito alle 13 da Budapest, tra otto ore sarò a Roma. In mezza giornata ho attraversato sulle rotaie Ungheria, Austria e Italia. Nessuno mi ha domandato un documento, nessuno mi ha ritenuto un pericolo. Sono bianco, biondo e con tratti europei. L'Europa è il mio mondo, la mia casa. Qui posso muovere passi sicuri. Nessun paese mi è troppo estraneo, conosco le loro storie nazionali, i suoni delle loro voci.

Sono quei passi pesanti. Sono gli stivali neri degli agenti austriaci e ungheresi. È quel loro cadenzato crollare in terra che lancia schizzi di fango tutto intorno. È il governo di destra di Orbán che fa risuonare una parola pesante, pericolosa. In Europa non si può parlare di muro senza sentire un enorme macigno opprimere il petto. Ci vuole cattiva coscienza o scarsa memoria, come minimo.

A quindici anni sono uscito per la prima volta da solo dai confini nazionali. Ho preso da Roma il treno per la Francia. Stringevo forte tra le dita la carta d'identità, fresca di stampa. Il confine è corso via, senza che nessuno me la chiedesse. Ho imparato l'importanza della parola Europa nella libertà del viaggio. Assaporando poco a poco ogni paese straniero. Vedendo come cambiano le facce e le facciate, di stazione in stazione. Cercando di catturare il segreto di qualche paesino dimenticato sul limitare di un bosco.

Alla stazione di Vienna ho visto i volti schierati di chi subisce il peso della nostra disfatta. La disfatta di un mondo europeo dei diritti e dei popoli. Abbiamo fallito. Lo dice il volto scavato di Tsipras messo in ginocchio. È lo stesso volto da cui mi guardano, sul sedile di fronte, due occhi neri interrogativi. Mi chiede cosa stia scrivendo. È un po' complicato. Sorridiamo. A volte è pesante la responsabilità della propria umanità. Ma quando la realtà ti scruta, con sguardo serio, seduta davanti a te, non puoi più nasconderti. Su queste frontiere si sta giocando, giorno dopo giorno, quel che resta dell'Europa. Lo hanno capito i cittadini ungheresi che hanno cominciato a creare reti, gruppi, associazioni per aiutare gli uomini e le donne che continuano ad arrivare da loro. Sul treno di andata ho letto la storia di vita e di fuga di una ragazza croata, una ragazza a colori. Non credo ci sia molta differenza. È una questione di libertà. E la libertà è, come scrive Massimo Fagioli, l'obbligo di essere esseri umani.

 

09/08/2015

 

 

A cura di Andreas Iacarella